Prigionieri in casa propria, le mura si trasformano e la fantasia vola verso scenari d’evasione.
Ho realizzato questo lavoro spinta dal bisogno di manifestare il mio disagio e il senso di impotenza nei riguardi dell’attuale situazione di emergenza sanitaria in un modo che non andasse a danneggiare coloro che si trovano con me a “scontare” la quarantena in uno spazio ristretto. Mi trovavo al quinto piano di un palazzo circondato da altri palazzoni su tutti i lati, e dopo poco tempo ho iniziato a soffrire di claustrofobia e mancanza d’aria. Allora ho immaginato un luogo alternativo, in cui – sebbene io sia sempre rinchiusa – sembra che sia il mondo fuori a penetrare lo spazio interno angusto e ostile: la luce accecante che proviene dalla finestra sulla sinistra, la sabbia che inonda il pavimento e le tinte di un cielo al tramonto che si distendono sulle pareti nude indicano una presa di possesso dello spazio da parte della Natura, così vicina in linea d’aria eppure così distante dalla nostra gabbia architettonica di cemento. Gli elementi sulla destra sono un manichino e due torpedo, attrezzi che si utilizzano nelle gare di nuoto per salvamento che è lo sport che pratico abitualmente e di cui – come tutti gli sportivi – sentivo una forte mancanza. La dimensione del salvataggio, della possibilità di impegnarsi per salvare sé stessi e gli altri, o dell’essere tratti in salvo se ormai non si riesce più a proseguire con le proprie forze, mi sembrava particolarmente adatta a quel momento di grande difficoltà. Con questo dipinto ho voluto anche esternare l’insieme di tristezza, rammarico, vergogna e dispiacere che derivavano dal senso di inutilità che mi attanagliava, perché prima di intraprendere gli studi artistici avevo ottenuto una laurea in Infermieristica – pur non avendo mai praticato in seguito.